In seguito alla nostra ampia analisi circa la categoria delle auto e dei camion, ci addentriamo nel settore moto e quad, andando anche ad “esplorare” il tracciato del 2014, tastandone le qualità e l’intensità di un percorso, che, a nostro avviso, spicca per il suo senso di ritorno al passato, restaurando un gran classico sudamericano, come l’edizione 2010, vinta da Carlos Sainz. Ma gli organizzatori sono sempre attenti a non dare mai quel senso di antico ad una gara che non ha frontiere, il cui aspetto non è mai consunto e preserva sempre il valore tonificante della novità, così come la concepì Thierry Sabine.

Non ci dilungheremo, come nella prima parte, in preamboli: alla caccia del podio finale nella pittoresca Valparaiso ci sono ben 175 moto e nella categoria quad 41 iscritti. Numeri, come di consueto, ampiamente sforbiciati da ASO per consentire il regolare svolgimento della gara, offrendo dunque la dimensione della partecipazione alla gara, che, senza distinzioni, coinvolge grandi squadre ma anche dei team di portata decisamente minore. Il paradigma, dunque, è sempre fissato dal fattore cambiamento, la “mescolanza” sudamericana, che ha consentito l’ingresso della Bolivia, non deve fermarsi sul piano sensazionale, aspetto determinato dal passaggio attraverso il celebre Salar d’Uyuni. Sperimentare, piuttosto, rilanciando soluzioni atipiche, che vadano in controtendenza a quelle misure le quali, a qualsiasi costo, disposte anche a snaturare lo sport stesso, vadano a promuovere uno spettacolo effimero, fittizio. Le ricette, fino ad ora, l’abile e sempre versatile cellula della Dakar, le ha sempre trovate, superando qualsiasi diatriba o veto, vero logorio del motorsport.


Un percorso “marathon”: un cocktail di sfaccettature tradizionali, fra novità e restauro

Di fronte ad un WRC “impotente” nell’apportare modifiche al chilometraggio complessivo, sotto il peso dei veti incrociati, ASO va a ricercare nella profondità della tradizione della Dakar, per forgiare un prodotto, un pacchetto assolutamente inedito, frutto di una serie di intersezioni di vari filoni di generi diversi. Operazione che si traduce in una sostanziale rivalutazione del rally, in una sorta di riordino di diversi parametri. Primo fra tutti, il chilometraggio, con un ragguardevole aumento di mille chilometri sul totale, al netto dei trasferimenti, con significative cifre di oltre cinquemila e duecento chilometri di tratti competitivi cronometrati, più di ottomila settecento chilometri, per tutte le categorie, separano Rosario, città dalla quale prenderà il via la Dakar. Il rally raid torna ad incarnare quella sfera tradizionale africana, il solco ripercorre le origini, senza ripudiare la presenza di elementi strettamente differenti fra loro.

La Dakar nasceva in Sudamerica priva di quel “gusto survival”, in un quadro di “ritorno al futuro”, perché in fondo la gara non può non affondare le sue radici che in quel continente, così controverso come quello africano. D’altronde, il 2013 pone un quesito di non immediata risoluzione: il ribaltamento del percorso, con la tempestiva apparizione delle dune più alte e complesse di quelle del Magreb, aveva dissipato il vigore della gara, proponendo il finale all’inizio del percorso. Una brutta opera di trapianto che non è piaciuta, al punto tale da estromettere dall’evento il Perù, perché ci sono canoni fissi, saldi, che hanno una linearità logica. La progressiva tensione verso l’alto, dall’Atlantico alle Ande, ne è sicuramente un esempio: un passaggio sterrato umido-secco, fino a giungere all’aspro Cile, dalla Pampa ai territori più arsi, giungendo al ciclo cileno, l’altro classico che non può mancare.

Sembra, a prima vista, una Dakar che sintetizza e riassume il meglio che può offrire, selettività dei percorsi, attraverso una sapiente combinazione di elementi tipici della gara ed estranei alla stessa. Un paradigma ottimale quasi trovato. Velocità, certamente, ma l’elemento della durata torna ad assumere più rilevanza. L’inedito, il Salar d’Uyuni, che sarà affrontato solo dalle categorie moto e quad, si fonde al tradizionale, come vedremo.

Argentina, dal podio di Rosario al bivacco di Salta

Si parte, in Argentina, nella citta cosmopolita di Rosario, nell’entroterra, che ospiterà per la prima volta la Dakar, con una PS che non sarà più di riscaldamento, non più una prova spettacolo, bensì una prima immersione nella gara, distinto da un lungo trasferimento, oltre 600 km, e 180 km di tratto cronometrato. Una “lingua” di terreno tecnica, che condurrà alle classiche, la San Luis-San Rafael prima fra tutte, molto veloce, diversificato per uno tratto sabbioso e un finale in cui si evidenziano alcune importanti gole, vista l’orografia della regione, con già circa quattrocento chilometri da percorrere. San Rafael-San Juan e San Juan-Chilecito chiudono una striscia che costituisce l’embrione dell’evento, non decisivo, stabilisce delle prime gerarchie e dei valori non indifferenti, perché è noto, non c’è test più affidabile dell’impegno diretto. E di questo avrà bisogno Nasser al Attiyah, che non è neppure riuscito a provare la sua Mini. Non si deve dimenticare che per le moto la tappa è definita marathon, dunque fra la terza e la quarta giornata non potranno usufruire dell’assistenza tecnica.

L’ultima della serie, la quarta prova, che giunge a Chilecito, risulta essere una delle più critiche, circa seicento chilometri di prova, divisi in due tronconi per auto e camion, con un fiume da attraversare, che potrebbe destare anche qualche difficoltà.
Chilecito-Tucuman e Tucuman-Salta chiudono la prima fase, improntata a prove che, ad ogni modo, fanno dell’usura e del logorio la loro arma più affilata, perché solo in queste ultime due appare, finalmente, il vero giudice, imparziale e spietato, qual è la sabbia, con le ampie dune comprese in quella che una volta era la prova di Fiambala, ancora più letale. Si chiude a Salta, nel tratto boscoso e silvestre, umido, il fondo è tendenzialmente fangoso dopo la prima parte cronometrata. Sarà la tappa dell’orgoglio argentino, con Terranova in testa, essendo già stata parte della Desafio Ruta 40, rally raid della Dakar Series. La città ospiterà anche il bivacco per il giorno di riposo, dopo aver ricevuto ottimi feedback nel 2013 per l’elevato standard qualitativo. Un puzzle finalmente completo, intrinseco di tutte le peculiarità che offriranno un prodotto sicuramente integrale.

Bolivia e Cile, le ultime sette tappe “da vivere tutte d’un fiato”

Dopo la pausa di Salta, ai piloti viene imposta la vera scrematura del percorso, quella dura, togliendo ai piloti il respiro, procedendo con le ultime energie. Si riparte proprio dalla città argentina: se auto e camion percorreranno una “loop stage”, ritornando a Salta, auto e quads si dirigono verso la Bolivia. La settima e l’ottava tappa, sia per le auto, che per le moto, costituirà una tappa marathon, che come già stabilito, non consente assistenza, per livellare la resa prestazionale. Il lembo che collega le due nazioni prevede lunghi tratti, in larga parte di prova speciale, compresi fra i 400 e i 500 km, che alla fine si assoceranno a Calama, primo caposaldo cileno.

Siamo nella fase più critica, visto il passaggio attraverso la Cordigliera delle Ande, che penalizza in modo accentuato la rese effettiva dei propulsori, problema attenuato dal fatto che nelle fasce alte della classifica si evidenziano soprattutto motori turbo. Da Calama a Iquique tappa equivalente per tutte le categorie, prodotto di un trasferimento senza ritocchi della prova del 2011, prima città costiera; il tratto è dato da oltre quattrocento km di prova cronometrata, insidiosi, in discesa, una volta superati i colossi montuosi andini, per poi giungere ad Antofagasta; decima tappa molto sabbiosa, lunga, 631 km, che potrebbe rivelare importanti colpi di coda e attacchi, tutti giocati sulla strategia del “prendere o lasciare”. Sulla duna si azzarda, senza tentennamenti. La tripartizione finale, dopo un cuore della gara all’insegna della conservazione dei percorsi originali, si punta su El Salvador, nuova località, La Serena e Valparaiso, città fra il meraviglioso e il terreno, fra il pittoresco e l’invadenza del turismo di massa. La Dakar si pone come ago della bilancia, esportando l’alito di gioventù perpetua del rally raid; gli ultimi tratti saranno prevalentemente sabbiosi e pianeggianti.

Yamaha e KTM, diagnosi di una schermaglia eterna

Dopo essere stato ingaggiato dalla Yamaha, Despres prova a rievocare l’infallibile opera del suo predecessore d’oro, Peterhansel, quando quest’ultimo mise in fila ben nove KTM: da allora questa aspra contesa ha avuto una connotazione netta, marcata, con un prevalere della casa austriaca negli ultimi anni. Potrebbe essere l’ultimo atto di un pilota che non ha più nulla da dimostrare, se non rinvigorire il proprio valore poliedrico, manifestando la propria valenza.
Con cinque successi all’attivo, il passaggio a Yamaha, in contrasto con lo storico rivale Marc Coma, risulta essere una sapiente opera di irrobustimento del proprio prestigio, una sorta di “cornice”, per dare completezza ad un cursus honorum già ricco.
Correrà in coppia con Olivier Pain, che l’anno scorso si distinse per la notevole flessibilità, pagando però l’inconsistenza della propria prestazione, segnata da “onde” piuttosto irregolari; chiuse nel 2013 in sesta posizione, con l’amaro in bocca e il desiderio di riscatto e sebbene il concetto di gregario non sia proprio di questa specialità, risulta difficile credere che si arrenderà al più blasonato compagno. Circa Coma, non meriterebbe presentazione, per l’eminenza del personaggio, se non dovessimo ricordare che vestirà nuovamente i panni dell’acerrimo rivale del francese Despres, quest’anno su moto differenti, con filosofie dell’enduro certamente non coincidenti.

Numero tre per Joan Barreda Bort, l’anno scorso velocissimo sulla Husqvarna, ma un errore nella quinta tappa costò una gara che poteva vincere, con un team emergente come quello svedese; quest’anno ripartirà con Honda e al suo fianco ci sarà niente meno che Helder Rodrigues, l’altro mastino di casa, non particolarmente brillante l’anno scorso, ma certamente una delle punte sulle quali si potrà contare per il podio. Gregario di ferro di Marc Coma è lo spagnolo Jordi Viladoms, che fra permanenze più o meno brevi in Husqvarna e Gas-Gas ha scelto la KTM per sostituire Kurt Caselli, l’anno scorso mattatore della Dakar, purtroppo deceduto in un incidente a ridosso dell’evento, durante la Baja 1000. Quinto numero per il cileno Lopez, sempre su KTM ufficiale, con la stessa motivazione e tempra di sempre, un carattere indomito e caparbio; si rilancerà, in seguito al soddisfacente podio del 2013, nell’anno venturo con ambizioni sempre maggiori, facendo della risorsa umana e personale la propria arma, vantando inoltre una conoscenza dei percorsi “palmo per palmo”.
David Casteu, tonico e brillante nel 2013, si getta nell’impresa con KTM, così come l’eccellente Ruben Faria; da segnalare anche la presenza di Ullevalseter e Svitko, presenze discrete nell’appuntamento dell’anno scorso.

“L’Italia da motocross” si evidenzia, come sempre, per grandi doti di adattamento alle situazioni in continua mutazione e, andando in controtendenza all’andamento generale della presenza nostrana al rally raid, aumenta sensibilmente il numero di partecipanti, ben quindici, rivelando l’essenza connaturata e intrecciata con il territorio e con lo sport. In cima segnaliamo Alessandro Botturi e Paolo Ceci su Speedbrain, nuovo prodotto della Husqvarna, i primi indiziati per risultati di primo piano, ma non sarà da sottovalutare il prodotto tutto tricolore, la TM 450, condotta dal campione mondiale Baja Zanotti e dalla new entry De Filippo. Ci saranno anche Beltrami su Honda, Napoli, Seminara, Catanese, Libralesso su Yamaha, così come il navigato Franco Picco –oltre trent’anni nel motocross- decima partecipazione alla Dakar.

Nella categoria quad, qualche accenno circa i partecipanti, essendo una serie ancora alquanto monopolizzata da locali e da Yamaha; i telai Polaris sono scomparsi, rimane solo Can Am. Honda ha ridotto la propria partecipazione, limitata a numeri inferiori agli anni precedenti. Il grande favorito è Marcos Patronelli, fratello dell’ormai ritirato Alejandro, una contesa familiare spentasi, che ha alimentato nuovi e accesi confronti con gli uruguaiani, fra cui sottolineiamo Lafuente, ma attenzione agli europei che iniziano ad annidarsi nella categoria, con risultati a volte di discreto successo. Husseini e Sonik sono le punte più significative di questo interesse del vecchio continente a far propria un filone a lungo estraneo. Fra gli italiani, ci sarà la sempreverde Camelia Liparoti e la new entry Carignani. Un affresco vorrebbe la piramidalità fra i quad, la cui “summa” spetterebbe a Patronelli; tuttavia, il distacco della specialità, che genera di consueto un gap ampio, dalla realtà europea, non implica che la strada imboccata sia quella del “provincialismo”, anzi. La direzione è proprio quella giusta, verso un internazionalismo che non potrà che portare benefici alla serie.

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