Nizza nel 1911 attirava i turisti con il Carnevale. Ranieri I di Monaco decise di rispondere con un evento rivoluzionario: un rally. Ovvero una corsa di regolarità sul modello dei raduni ciclistici in voga in Italia. Partenza da varie città europee, arrivo nel Principato. Era il 1911, le automobili più potenti avevano 25 cavalli (la metà di un’utilitaria d’oggi) e la velocità media, da regolamento, non doveva scendere sotto i 30 chilometri l’ora. Vinse Henri Rougier su una Turcat-Mery. Un secolo è trascorso da quella «prima» che portò a Montecarlo 23 equipaggi e una cinquantina di persone (avere passeggeri regalava un bonus in classifica: anche così si portava clientela agli alberghi).

L’anno dopo gli iscritti erano quattro volte di più. Cominciava la storia del Rally di Montecarlo, che domani inaugura l’edizione del centenario. «Era la gara più importante per i piloti e per la Case costruttrici» sostiene Sandro Munari, soprannome Drago, uno che il «Monte» lo vinse quattro volte. Cominciò nel ‘72 con la Lancia Fulvia Hf, navigatore Mario Mannucci. «La Fulvia doveva uscire di produzione in quel periodo – ricorda -. Quel risultato le allungò la vita di cinque anni. Di 160 mila esemplari prodotti, 50 mila furono venduti dopo il mio successo. In quel periodo, chi arrivava primo diventava il pilota di riferimento».

Corsa difficile, imprevedibile. Completa. «Partivi con l’asciutto, passavi alla pioggia o alla neve e non potevi cambiare le gomme. Altro che la Formula 1, con quelle cinque curve sempre uguali». È del ‘76 (con la Stratos) l’impresa più difficile di Munari, assistito da Silvio Maiga. Non esistono i cellulari, non c’è internet per seguire le previsioni meteo satellitari. Il massimo della tecnologia è un walkie-talkie per comunicare via radio con un informatore in cima al Col de Turini. «Mi avverte che piove – racconta Munari – e scelgo le gomme di conseguenza. Mentre sto timbrando, richiama allarmatissimo perché ha cominciato a nevicare». Non c’è tempo per montare le chiodate. Munari ha 4 minuti di vantaggio, parte, spinge più che può per arrivare in cima prima della bufera. Troppo tardi. «Avevo pneumatici larghissimi che galleggiavano, sembrava di timonare una nave in mezzo a una tempesta. Viaggiavo sul ciglio della strada per mettere le ruote sull’erba». Il vantaggio se ne va tutto, ma Munari torna in testa nelle speciali successive.

Poi un altro imprevisto: il cambio si blocca. «Faccio in quarta dodici tornanti in salita che normalmente avrei impostato in prima. Il problema è che non sarei riuscito a partire per l’ultima prova». Ci pensano i due meccanici («sì, ne avevamo solo due») che in un quarto d’ora tolgono l’olio bollente, svitano i 24 bulloni che fissano il coperchio del cambio e lo aggiustano. Il 76′ è l’anno della terza vittoria, nel ‘77 il poker.

Altri tempi. Oggi la gara nel Principato fa parte dell’Intercontinental rally championship, che è una sorta di serie B del Mondiale. Però ha un regolamento più libero, che consente di correre di notte la speciale del Col de Turini, luogo simbolo del rallismo. «Se non cambiano le regole, il rally muore – taglia corto Munari -. Una volta partecipavano 10-15 marche, ognuna con cinque vetture ufficiali. Oggi sono rimaste Citroen e Ford, sono fuggiti gli sponsor e mancano le tv». Il motivo? «Non ci sono più i percorsi in linea, quindi si torna sempre allo stesso punto. E si corre con le 4×4, che nel mercato dell’auto rappresentano l’1 per cento del totale. Così si livellano i valori, non c’è più l’imprevisto. La gente una volta si identificava con i piloti, oggi vincono sempre gli stessi».