Ormai intercorre solo un mese all’inizio della Dakar: l’elenco iscritti, fra sorprese e iscrizioni annunciate, preserva sempre quell’aspetto del clamore, che ne esalta la straordinaria complessità, un affresco delle corse che riunisce veterani e amatori senza distinzioni. No, la Dakar non è uno sport accademico, è la quintessenza dello sport tradizionale, grezzo, fatto di storie e di piccoli tasselli di eguale valore. C’è un rifiuto delle gerarchie che è la regola acquisita del rally per antonomasia: è qui che bisogna ricercare ancora quell’attrazione che suscita la Dakar, fra gli spettatori più o meno competenti che siano. Un fascino, dunque, tutt’altro che comune, perché nel rally c’è tutta l’essenza di avventura, un metaforico viaggio di conquista: l’evento nasceva proprio con il marcato attrito fra natura selvaggia e il mezzo, strumento-simbolo di un progresso incondizionato nella El Dorado del deserto. Oggi l’evento non è più questo, rappresenterebbe una via sbagliata, anacronistica, poiché verrebbe meno quel suo carattere vitale, insito nella concezione della Dakar, che si individua nella molteplicità dello sviluppo: il motorsport oggi si evolve grazie ad una visione più “green” e si alimenta così, con la passione, con la brama di risultati.

Nella polemica, infatti, il cambio regolamentare del 2013 ha aperto le frontiere della disputa, è stata un’iniezione vitale per una gara che negli ultimi anni aveva sofferto il forte protagonismo di Volkswagen, Sainz, Al Attiyah e Peterhansel; dall’anno scorso è affiorato uno spartiacque significativo, avvalora il connubio, o per alcuni dualismo, di anima della gara, definita dai piloti, cuore pulsante dell’evento e itinerario, il corpo esteriore, il guscio. Nella sua storia, tuttavia, la Dakar non potrà mai smarrire la traccia dell’epopea, perché il valore leggendario va rintracciato nelle trame e nelle vicissitudini di ciascun equipaggio, sotto ogni profilo e nella promiscuità di quella che è una sorta di maratona, vissuta tutta d’un fiato. Anche nel 2014 si intrecciano liberamente storie di professionisti e amatori, progetti ambiziosi e coraggiosi, fra coloro che bramano la vittoria e chi desidera raggiungere il traguardo. Non sarà un’analisi, bensì un racconto fluido, nella varietà dell’offerta che ogni anno la Dakar rilancia, vedremo le ambizioni delle squadre, grandi e piccole che siano, dalla Mini all’indomito progetto Pandakar, rinato con interessanti novità.
Gli occhi, certamente, sono puntati al 2015, quando potrebbe avvenire il debutto della Peugeot, secondo alcuni con la 2008, fresco prodotto della casa francese, coda di un brand di espressività vivace, dopo il successo dell’utilitaria; si percepisce, tuttavia, che quest’anno la Dakar non sarà semplicemente transitoria.

Dalla Mini alla Panda, ottica di una Dakar che si scopre nuova

Ad osservare i valori in campo, si potrebbe individuare un parco partenti cristallizzato, immutato rispetto al 2013; in effetti, dall’era dei successi Volkswagen, si è formata una catena con pochi anelli, tutta incentrata sull’opposizione fra costruttori rivali, BMW e Volkswagen. Il mito europeo della Dakar poi ha avuto un riscontro ulteriore con il formarsi di preparatori di buggies, già attivi in realtà nei rally raid, che hanno usato ed abusato delle agevolazioni regolamentari, riproponendo, come cavallo di battaglia, anche la loro estrema agilità sulla sabbia. In realtà, l’appuntamento del 2014, presenta un ventaglio di novità ed evoluzioni nel panorama della Dakar quantomeno interessante. Non è la riproposizione degli stessi valori in campo, si legge chiaramente un tentativo di emulsionare tale scala, con connubi –per usare un eufemismo- originali. Coppie imperfette, inusuali, in passato in attrito: sarà l’elemento collante di una Dakar che ha bisogno di sfide eccellenti, per riportare l’accento sullo spettacolo. E sarà, dunque, Mini a farsi carico di ben dodici vetture schierate sul campo, fra emergono equipaggi da ogni nazionalità: spicca, fra le altre cose, il carattere marcatamente cosmopolita del rally. Concentrandosi, ad ogni modo, sulle “alte sfere”, non possiamo non segnalare il quadrato Peterhansel-Al Attiyah-Roma-Terranova. Una “tetrapartizione” assolutamente di rilievo, eguale, che rivela altrettante anime di guida. Il francese, ancora una volta, vestirà il ruolo del più fine calcolatore, abile in modo eccezionale nel leggere la gara, visione contrapposta a quella del qatariano, più aperto all’attacco indomito, aggressivo e probabilmente risulta essere il migliore interprete, da un punto di vista complessivo, dei percorsi.

A seguire, Nani Roma, che dalla sua parte gode di notevole esperienza e di ben due podi nella sua carriera, in cui è affiorato tutto il potenziale di un driver paziente, che costruisce la propria opera nel lungo termine; Terranova, la new entry, si mise già in luce per spiccate qualità di guida, specie nei settori sterrati argentini, una sorta di “spalla destra” per una squadra tutta improntata all’attacco. –Personalità a tratti spigolosa- l’argentino ha vinto il Rally del Marocco con una rimonta di grande intensità ed è noto, la gara africana se non preconizza risultati, indubbiamente offre rilevanti indicazioni. Uno squadrone, insomma, che non sarà certamente solitario. Si pensi infatti, che l’assenza di una rivalità ampia fu la causa di due edizioni vinte tutt’altro che al “fotofinish”; con il 2014 si apre una pagina nella quale si può inserire una molteplicità di avversari tale da rinfrescare e ridare linfa vitale alla Dakar. A partire dal nuovo Hummer del funambolico Robby Gordon, profondamente rivisto, fino a giungere ai buggies di Gache, il team SMG, i cui condottieri saranno altrettanto di rilievo: Carlos Sainz e Ronan Chabot.

Se la vetta pare una questione ristretta circoscritta, la fascia degli “exploiters” è ben più ampia, fra coloro che effettivamente potranno ambire al podio. Negli ultimi ha peccato di tempra e tenacia Giniel de Villiers, ma resta uno dei diamanti della gara, con il Toyota Hilux ha dato sempre prova di accentuata regolarità, tuttavia insufficiente per concorrere al successo. La retroguardia Mini è folta, ma Krzysztof Holowczyc pare il più titolato, altro pilota fra i “navigati”, vincitore della Coppia FIA Cross Country nel 2013 e dell’ultima prova, la Baja Portalegre 500. Volendo trarre un bilancio, al netto dei rivali, c’è un dodecagono, che nella sua pienezza propone il senso di compattezza e omogeneità del team X-Raid, pur in presenza di una significativa variegatura, in un efficace contrasto. A tal proposito, possiamo segnalare il debutto di Federico Villagra, pluricampione argentino e autore di discrete performances nel WRC coadiuvato dal fedele navigatore Jorge Perez Companc.

In questa narrazione, però, non possiamo cedere alla tentazione, alla logica riassunta dal motto latino, “Ubi maior, minor cessat”. Non può essere il filo conduttore di una Dakar, nel cui “basso rilievo” hanno posto, con eguali proporzioni, tutti i piloti, una serie di frammenti indissolubili. Anzi, in tal senso, le file delle squadre di rincalzo si irrobustiscono, fra cui spicca innegabilmente Ford, con il tradizionale pickup Ranger, sul quale sarà montato il massiccio V8 5.0, di derivazione altrettanto celebre, essendo equipaggiato dalla Mustang.

La filiale sudafricana ha schierato un “pezzo da novanta” come Lucio Alvarez, capace di trarre sempre il massimo del proprio potenziale. Il mezzo, invece, si mostra leggermente più carente, meno agile delle vetture di vertice e meno prestante.
Dotato della flangia da 38mm, conforme per tutti i veicoli T1, dovrebbe sviluppare complessivamente meno cavalli e meno coppia dei competitors di riferimento ed infine deficitario sul piano della velocità massima, aspetto tornato in auge, essendo la Dakar sudamericana marcatamente più veloce di quella africana. Per quanto concerne i restanti parametri, invece, non possiamo esprimerci: l’altrettanto imponente Hummer di Gordon, ancora più pesante, ma che gode di grande duttilità sulla sabbia, si esprime sempre al meglio sulle dune.
A margine dell’evento, ricordiamo anche che fino all’ultimo era in gioco anche Yazeed al Rajhi, con il secondo Hummer, alla fine fuori dalla lista iscritti.

Si rinvigorisce anche il team Haval, altro segnale di una Dakar aperta anche ai flussi asiatici, quest’anno composto dal sempreverde Carlos Sousa e dal veterano Lavielle, che dopo aver partecipato per anni al rally raid con Dessoude, che schierava un prototipo ormai giunto al termine della sua vita. Cjoide questa lunga esperienza e il rilancio avviene con la casa cinese, tuttora alla ricerca di un guizzo, che ancora manca.

Giungiamo dunque al punto di arrivo, riprendendo il nostro titolo “dalla Mini alla Panda, una Dakar che si scopre nuova”: è vero, i protagonisti, si potrebbe osservare, in linea di massima, sono gli stessi. Ma il formato, le premesse da cui parte questo rally sono differenti, è un appuntamento proiettato al futuro, che innova nonostante le difficoltà, capace di reggere il peso delle ristrettezze o addirittura di ampliare il proprio volume. Ed è nella stessa misura avvincente il progetto Pandakar, restaurato con un trapianto di energia e brio, rivalutato e rilanciato nella sua forma più appropriata, con l’esprit delle piccole creature che amano distinguersi, essendo d’altronde la Panda un unicum nel segmento automobilistico A.

Ci riferiamo, con precisione, alle basi gettate a cavallo fra primavera ed estate, nel quale ha preso forma il rilancio della squadra e soprattutto della vettura, più promettente, in controtendenza con le versioni precedenti, godendo di un propulsore più adeguato, capace di sviluppare una potenza decisamente maggiore (180 cavalli), passando dal 1.3 al 1.9 Multijet. I diversi test hanno messo a dura prova la vettura, sperimentata in Africa, su diverse superfici, con buoni feedback. Purtroppo, la recente notizia dell’abbandono di Biasion, che non ha portato al termine l’ambizioso programma, ha rimescolato le grandi aspettative sorte in seguito alla profonda rivisitazione della vettura, ma la carenza di budget ha permesso al team di spedire solo una Panda. Il candidato non è noto, ma potrebbe essere Giulio Verzeletti, sul quale “veglierà” probabilmente il camion di Loris Calubini, su Mercedes Unimog. L’equipaggio bulgaro Orlin-Nikolov, potrebbe invece concretizzare il debutto di un prototipo T1 Fiat Freemont, avanscoperta nei meandri di un esemplare nostrano, che beneficia dei requisiti per fare sfoggio di prestazioni velocistiche convincenti. Presente, fra gli italiani, anche il buggy di Giampaolo Bedin, oltre che la famiglia Cinotto su Toyota.

Iveco, Kamaz, Tatra, Man: cardini di un confronto fra pionierismo e conservazione

Se abbiamo evidenziato, in certo qual modo, una categoria, quella delle auto, in evoluzione rispetto al 2013, tale fenomeno fra i camion è decisamente più marginale. Ma sicuramente il tema della riproposizione della sfida Iveco-Kamaz, due filoni sportivi e, se vogliamo, due realtà industriali agli antipodi, un duello ingrossato e rafforzato da Man e Tatra. Queste ultime due case, dopo aver vissuto immeritatamente fuori dal podio la Dakar dal 2007, pur essendone state gloriose protagoniste, ripartono con lo spirito tenace di sempre, con qualche novità. Filosofie di costruzione e progettazione, vanno dunque a scontrarsi, dando vita ad una doppia ramificazione, una occidentale e l’altra tendente verso l’orientale. Nonostante il numero degli iscritti sia modesto, settantuno, si aprono scenari interessanti. Meno per l’Italia, che dopo aver scritto le migliori pagine della categoria camion, schiera solo due mezzi. Viceversa, corre in direzione opposta la nazione olandese, che sintetizza la portata europea della categoria, con ventisette partenti, fra piloti, navigatori e meccanici.

E il team de Rooy, dopo l’abbandono al vetriolo di Biasion, curando le ferite di una perdita così rilevante, si ricompone, assume una nuova forma, con due camion dediti all’assistenza, i Trakker di vecchia generazione guidati da Jo Adua e dal versatile Pep Vila, in rientro dopo un anno sabbatico, mentre i condottieri saranno Hans Stacey, sullo stesso mezzo, più evoluto, che affiancherà il team leader Gerard de Rooy, unico a disporre del Powerstar, il celebre “musone” che ha innescato una piccola rivoluzione nella filosofia progettuale, che è prevalsa, dopo decenni di dominio Kamaz-Tatra. Ed è proprio su questa contrapposizione, così netta, che si gioca, da diverso tempo, la sfida. I primi a comporre un mezzo innovativo, efficace sulla sabbia dell’entroterra africano di fine anni 80’, furono i progettisti del Tatra, che realizzarono un corpo centrale tubolare che fosse capace di inglobare i principali organi di trasmissione, lasciando libere le sospensioni, che sono dunque indipendenti.
Tale telaio tubolare consente una maggiore flessibilità nella guida, offrendo stabilità all’assetto, consento agli assi di seguire le variazioni del terreno; non c’è da sorprendersi, pertanto, se i cechi per anni hanno monopolizzato l’evento, distinguendosi ancora sulla sabbia. Ales Loprais, figlio d’arte del plurivincitore Karel e Martin Kolomy saranno in prima linea a contendersi un successo che bramano da anni.

I Kamaz, a loro volta, tornati vincitori nel 2013, in quell’occasione occuparono tutto il podio, ma con l’abbandono della figura leggendaria di Chagin, oggi direttore sportivo della squadra, si è percepito un senso di smarrimento, in parte favorito dall’emergente ruolo dell’Iveco, la cui squadra, con De Rooy, ha lanciato il Torpedo Powerstar, che vanta una distribuzione dei pesi e un abbassamento del baricentro mai così estremizzato. Anche MAN, ha subito l’iniziativa altrui, dal 2007 è sostanzialmente assente dal podio, pur rivestendo i panni di una casa d’élite e nel 2014, con il sempreverde binomio Van Vliet-Versluis, dopo una Dakar 2013 discreta, anche se poco consistente, si rilancia con un mezzo aggiornato: sarà tuttavia capace di duellare con gli squadroni, così robusti, ovvero Iveco e Kamaz, o sarà la definitiva abdicazione di una regina?

“La voce grossa”, oggi, la fanno i più arguti, chi riesce a proporre soluzioni atipiche, evolvendo ed innovando, in una sorta di ampio scontro fra differenti filosofie progettuali, che affondano le proprie radici in quella cortina di ferro metaforica che si riproduce in pista. La storia di Kamaz è legata quasi esclusivamente al suo impiego militare nell’Unione Sovietica, mentre Tatra, celeberrima per il ruolo di casa profondamente audace nelle scelte tecniche, associa i suoi prodotti più riusciti nello stesso ambito. Una derivazione a tratti curiosa, che progressivamente perde il passo, con onore e distinzione di fronte alle novità pioneristiche galoppanti.

De Rooy, d’altronde, l’anno scorso non peccò di superbia, conducendo il proprio mezzo con arte ed eleganza: fu l’affidabilità, il caposaldo su cui si aggrappano ancora le squadre più “orientali”, a consentire a Nikolaev di vincere fregiandosi di un collaudato e assolutamente irriducibile. Fu invece l’olandese a pagare un problema tecnico, nella fase finale della gara. Fra i russi, dunque, squadra promossa, composta dal già citato Nikolaev, supportato da Mardeev e Karginov; dopo il garbuglio del 2012, segnato da ritiri, errori marchiani e addirittura la squalifica per il campione in carica, l’obiettivo è quello riaffermare la maturità della più recente performance.

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