Il giudizio del Rally Montecarlo era stato uno di quelli implacabili, severi, forse troppo per una “palude” di piloti che voleva cambiare pagina, nella gara in cui tutto è possibile e immaginabile. Che invece aveva delineato il solito quadro, con i problemi cronici di Hyundai sia in ingresso che in uscita di curva e due piloti apparsi demotivati e stanchi. Poi veniva la Svezia –si pensava- un rally in cui scivolare è semplicemente vietato e dunque, si sarebbe dovuto ripetere il monologo Volkswagen. Inutile girarci attorno: in Svezia è accaduto di tutto, tanto quanto basta per poter dire “qualcosa si è mosso”. Si è creata la giusta alchimia per un fronte anti Ogier, sul campo –questa volta- non c’è stata la mannaia ma un giudizio salomonico: tanto Neuville quanto Mikkelsen hanno fatto qualsiasi cosa per mettere i bastoni fra le ruote di Ogier. Quasi ci sono riusciti, ma per battere il francese ci vuole ancora qualcos’altro, non basta far “bollire” il suo sangue. Meriti e demeriti a parte, comunque, una Hyundai che ruba la “folla” della stampa ad una Polo al termine della seconda giornata non si era mai vista. E non era semplicemente credibile uno scenario simile prima della partenza, sempre a prescindere dai risultati, che valgono fino ad una certa misura. Troppo sbrigativo dire anche che il trittico di rally iniziale conta poco: dalla sua parte, adesso, Neuville ha anche il regolamento giusto per vincere.

I rischi comportati dal nuovo meccanismo che regola l’ordine di partenza li conoscevano tutti: l’abitudine ed una sana –ma non troppo, evidentemente- esperienza aveva portato addetti ai lavori e pubblico a prendere sottogamba la nuova norma.
Apparsa a suo volta appena sufficiente a contenere lo strapotere Volkswagen, l’unica squadra che, d’altronde, si era opposta con non troppo convinzione, se non con nonchalance. E quell’eccesso di sicurezza, quella superbia un po’ francese, un po’ tratto distintivo del secondo Sebastian rischia di diventare un’arma a doppio taglio. Con che occhi lo spettatore guarda il Rally di Svezia? Con quelli dell’incredulità, del rocambolesco, dell’inverosimile. Né il belga né la Hyundai erano, alla partenza, minimamente indiziati per un simile sviluppo del rally. Al punto da confondere la scena con un senso indistinto di assurdo e stravagante.

Invece non lo è: pur rimanendo perplessi per una correzione che va a intaccare l’essenza del WRC –altro che “sottigliezze” e lamentele- ritorna in primo piano il valore strategico, la lettura, l’interpretazione. Che sia chiaro: se non ci sono le auto giuste e i piloti adatti –lo abbiamo sottolineato in occasione del Rally Montecarlo- non si va lontano. E più volte, tutto il parco partenti, fino all’orlo, è stato messo in seria discussione. Ma Neuville ha ribaltato lo schema, il disegno di un Ogier che si sta trasformando progressivamente dal mattatore goliardico a teso protagonista molto Alain Prost –famose le sue rimostranze- e poco Senna, dal quale, non molti mesi orsono, “si è detto ispirato”.

Però non si può far finta di niente. E nemmeno accontentarsi di dire che il Rally Svezia è una “gara particolare”: lo è, ma se si tratta di misurare le qualità (reali) di una vettura è fra i più idonei. Molto più di quel terribile terzetto di gare –con particolare riferimento ad Argentina e Italia- segnato dalla polvere, terribilmente tanta, che finirà per mascherare le vere prestazioni. Magari strizzando l’occhio a chi, come Hyundai, manca ancora qualcosa per vincere.

C’è da dire che se la vittoria di Ogier non è in discussione, i venti punti al belga sono il giusto premio per un evento condotto con il coltello fra i denti, certo, ma è anche giusto rendere degni onori al team più lungimirante, che in quanto a strategia ha avuto l’occhio più lungo. I coreani –ancora una volta- hanno adottato la carta dell’azzardo, dell’eterodossia. Se Neuville ha sognato il successo sabato pomeriggio, è anche grazie alla scelta di uscire per due volte dal Parco Assistenza con sei pneumatici anziché cinque. Nella piena consapevolezza che la i20 tende a superare la temperatura corretta d’esercizio, la squadra si è adoperata nel risolvere la questione usura, anche perché le sollecitazioni dei curvoni veloci svedesi sono particolarmente significativi.

Se proprio dobbiamo parlare di strategie, allora possiamo dire che la vittoria Volkswagen è più tattica che strategica. Il bottino è indubbiamente precipuo, il due volte campione del mondo ha già quasi una gara di vantaggio sul belga in classifica, ma ci sono alcuni nodi da scogliere, molti scorsoi. Non ci sono regolamenti di conti, non facciamo supposizioni campate per aria. Il rischio è però quello di un’assenza di regia avveduta -che ci è apparsa molto più presente in Hyundai- che sappia tenere a freno la bile dei suoi piloti.
Il nocciolo della questione è che Hyundai –fuoco di paglia o meno- resta una avversa presenza al top. I sorrisi, qualche lusinga in conferenza stampa nascondono uno scenario che fino alla scorsa settimana era semplicemente folle. Adesso è profetico. Fra tre gare potrebbe essere anche reale e concreto.

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Nella stagione passata –su questo nessuno discute- le puntate offensive di tutta la concorrenza avevano un che di imbarazzante, per la semplicità incapacità di disturbare minimamente l’azione dei tedeschi. I grafici soprastanti riassumono bene invece come una possibile inversione di tendenza sia già un dato di fatto. Le ultime tre prove disputate lo mostrano in modo affidabile. Nessuna concessione, stesso fondo e stesso obiettivo, la vittoria. Il distacco Hyundai è assolutamente contenuto, appena tre decimi per chilometro, ma sommariamente si guarda ad una media di 0,4/0,5 decimi nell’intero arco della gara, contro i 0,7/0,8 riscontrabili in quasi tutti gli eventi dell’anno trascorso.

E allora si capisce –benché sia assente una controprova- che qualcosa è cambiato. Il piede del pilota non basta, almeno non a colmare lacune sistematiche.
Difficile, però, individuare cause specifiche, dal momento in cui Hyundai non ha più omologato nulla dall’agosto 2014. I problemi non sono scomparsi: trasmissione, motore e cinematica delle sospensioni restano i tre punti nevralgici, specie per una vettura come la i20 che ha nelle sue criticità proprio il grip meccanico, non di rado lo si è visto a Montecarlo in percorrenza degli hairpin della Power Stage. Essendo poi abolito dal 2010 il differenziale centrale, auto non ben bilanciate soffrono tutte le difficoltà del caso: una modifica di fatto va a risolvere un problema per riverberarsi su un altro. Da sottolineare come l’auto abbia una tendenza ad “alzare” la ruota interna per via di un bilanciamento meccanico tutto spostato sull’anteriore. Il debutto della i20 coupé resta un’urgenza a prescindere dai risultati. La vettura attuale è interessante, ma non è nata con l’intento di sfidare la Volkswagen.

Passepartout trovato?
Probabilmente no, ma il secondo posto di Neuville –e non dimentichiamo anche il quinto di Paddon- qualcosa deve pur significare. Non è certo tutto merito delle posizioni di partenza, anzi.
Quelle torneranno ben preziose nelle prossime gare ed è per questo che la Hyundai, se consoliderà veramente il suo potenziale, potrà provare a spingersi fin dove possibile. E il possibile va molto lontano, fino all’incredibile. Non fino al titolo, certo. Anche perché sarà fondamentale non buttare tutto come in passato. Ci sono settantacinque chilometri nell’ultima tappa del Messico, di cui ben cinquantacinque in una prova: abbastanza, ma non troppi per non cercare l’impresa, per non essere sfiorati dall’idea di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Dal suo canto –e da quello della restante concorrenza- il belga dovrà fare qualcosa più di ordinario. Dopo diciotto prove, il sabato, avrà bisogno di almeno mezzo minuto; se non basteranno, potrà sempre riprovare nelle più favorevoli tappe successive. E tenere sotto scacco chi con la tripletta del Montecarlo aveva ridotto il WRC ad un affare di famiglia, da sbrigare in casa.
La fiducia logora chi non ce l’ha: mai come oggi è un fattore “di casa” in Hyundai. La Volkswagen è avvertita…

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