Giorgio Albiero, vincitore della Dakar 1992-1993 al fianco di Francesco Perlini, è pronto a raccontare la sua versione sulla Dakar 2016…e non solo. L’esperienza accantonata nel corso di ben sedici Dakar, da pilota a copilota, a partire dal 1989, è tale da poter narrare la propria di verità –togliendosi anche qualche sassolino dalla scarpa- dai primi anni fino alla partecipazione con De Rooy. Nel 2008 ha fondato la scuola italiana 4×4 su richiesta delle F.F.A.A, a seguito dei numerosi incidenti stradali sui VTLM Lince, con importanti risultati nella gestione di mezzi con elevato tonnellaggio.

Partiamo dal presente: quali sono i prossimi progetti, in un momento in cui non c’è neppure un italiano iscritto fra i camion?


“Non c’è nessun progetto a livello agonistico, vista la situazione economica e i problemi di lavoro. Ho però una mezza idea a livello personale: è in fase di un studio un viaggio in Amazzonia con dei camion”.

I camion, appunto. Per la prima volta nella storia della Dakar, nel 2016 non ci sarà un equipaggio italiano: che cosa ha smesso di funzionare nel nostro modo di fare rally raid?

“E’ molto semplice: come ho detto prima, non ci sono aziende disponibili a seguirti; con il camion, ad esempio, la Dakar la puoi fare da privato come una bella avventura, arrivando anche al traguardo, ma a quel punto si tratterebbe di spendere un capitale significativo, di non dormire mai e di rischiare per concludere nelle ultime posizioni in classifica. E’ meglio piuttosto aspettare la fine della Dakar, procurandosi un offroad, facendo in relax stesso percorso con meno problemi e più divertimento (non svolgendosi più in Africa non c’è più problema di alcun tipo). Se invece vuoi fare la Dakar per arrivare entro i primi dieci il discorso cambia completamente: devi avere un team e una squadra ufficiale, con dei costi impressionanti. L’unica in Italia è l’Iveco ma ha scelto altre strade” (ndr, team De Rooy, i camion sono assemblati in Olanda, ma il supporto tecnico è della casa torinese).

Facciamo un passo indietro: Biasion è rimasto stretto un po’ in uno schiaccianoci nelle ultime due Dakar…

“Dipende un po’ da come si vuol interpretare la faccenda: l’anno in cui siamo arrivati sesti (2012, ndr) avevamo vinto più speciali di tutti, eravamo fra i primi (a solo due minuti e mezzo dal primo, ndr) e diciamo che per testardaggine è sfumata la vittoria. Ci tenevo molto visto che avevo già vinto con Perlini: volevo una terza vittoria assoluta sui camion, la Dakar non è un giorno di gara, bensì molti e bisogna saperli gestirli”.

Andiamo ancora più indietro, fino allo scorso millennio: ma quanto è cambiata veramente la Dakar? Biasion dice di preferire quella sudamericana…

“Io parlo per me: preferisco mille volte di più quella africana, anche se era più dura, per la navigazione, per le dune per il chilometraggio e per la possibilità di rimanere fermi per eventuali rotture nel nulla; quella sudamericana è troppo rallystica , troppo “facile” per i team ufficiali/factory che non hanno problemi a raggiungere i bivacchi e durante la notte hanno la possibilità di rimettere a nuovo i mezzi; ne deriva che si apre una disparità troppo grande tra team “poveri” e squadre ufficiali. Le speciali inoltre spezzate da trasferimenti (pratica molto diffusa in Sudamerica, ndr) limitati diventano noiose e pericolose. In Africa era un “pronti-via”, con 700-800 km di speciale da bivacco a bivacco. In un’edizione (1993, ndr) con Perlini abbiamo fatto 1150 km in un giorno di speciale, mi sembra fosse Tam-Adrar”.

Sui camion è rimasto sempre nei regolamenti un legame con i prodotti di serie. Eppure, quanta distanza fra il Perlini 105F (equipaggiato con lo storico Detroit 2T) e l’Iveco Trakker…

“Non pensare che ci sia tanta distanza: il Perlini pesava tredici tonnellate, 690 cv, pneumatici da 25” e sospensioni oleopneumatiche. Il Trakker ha una massa a vuoto di 8,5 tonnellate, ha 1100 cv e gomme da 22,5”. La cosa migliore sarebbe mettere insieme i due mezzi, prendendo quello che ci ha sempre fatto vincere con Perlini, le meravigliose sospensioni e le gomme da 25” con il peso dell’Iveco e la potenza dello stesso!” (ndr. infatti oggi il regolamento impone una ridotta lunghezza del cassone, con massa generalmente ridotta).

Passiamo alla Dakar 2016: il passaggio dal V12 Yaroslav’l al V8 Liebherr (con cilindrata notevolmente ridotta) pare non aver intaccato il dominio Kamaz.
E’ il grip meccanico il loro punto forte?

“Il loro punto forte è la “pazzia” dei piloti, che se non vincono li mandano in Siberia!
L’organizzazione è in realtà perfetta, sia di squadra, sia tra equipaggi in gara sia alla sera al bivacco. I Kamaz inoltre lavorano tutto l’anno preparando esclusivamente la Dakar, mentre il motore che hanno scelto è leggero ed è dotato di un’ottima coppia”.
Anche ai tempi del Perlini c’erano in gara diversi Kamaz, ma la lotta si svolgeva alla pari ed in molte occasioni abbiamo vinto noi. Secondo me nei nuovi team nella categoria camion non si riesce a capire che in certe situazioni i piloti debbano avere ordini imperativi da seguire, e che i mezzi d’assistenza tanto al bivacco quanto in pista debbano essere leggeri e rapidi come i mezzi in gara, con persone capaci ed inquadrate e direttive ben precise. Su questo, preferisco non andare oltre”.

Ma non è che il problema è più dei rivali? Ci è parso di vedere poca collaborazione all’interno del team De Rooy negli ultimi anni…

“No comment: oltre alla collaborazione, ci devono essere più mezzi di assistenza veloce: con tre mezzi in gara ce ne devono essere altrettanti di assistenza veloce; inoltre devi avere notevoli capacità finanziarie, oltre che il tempo, per far si che in primavera si possano testare i mezzi per almeno 10.000 km di percorsi “tirati al massimo”, non basandosi solo sul rally del Marocco”.

Loprais e Villagra si uniscono al team De Rooy: basterà per aprire una breccia nello strapotere dei russi?

“Anche qui dipende molto da quali ordini hanno avuto e dall’assistenza veloce; secondo me tutti e due vogliono vincere poiché entrambi hanno portato in dote parecchi sponsor e cosi è difficile con tre galli nel pollaio raggiungere il successo. Il team deve ingaggiare i piloti e gestirli senza che questi possano mettere sul piatto sempre il loro potere sulle finanze della squadra, correndo come se fossero da soli”.

Ce la farà Peugeot a vincere la Dakar al secondo anno? Il progetto è coraggioso, ma in Marocco non è andato tutto liscio…

“Semplicemente la Dakar è sempre la Dakar: l’esperienza Peugeot è storica e tutto può succedere”…

Nella Dakar africana, i percorsi esplorati sono stati tanti, poi negli ultimi anni si è raggiunto un punto di saturazione. Non è che in Sudamerica si rischia di ripetere lo stesso errore?

“In America sono già saturi; in Africa invece ciò è avvenuto per l’impossibilità di passare nuovamente in certi stati. Lì non hai piste obbligate come in Argentina e qualsiasi metro di terreno può diventare una pista. In Sudamerica invece questo non è possibile: bisogna seguire le piste ed è difficile superare su terreni aperti, sei sempre molto guidato e costretto a stare dentro una certa corsia; inoltre sulle dune è più pericoloso che in Africa: presa ad esempio un’area di 50km2 di dune, la gara passa a zig zag all’interno della zona per farti fare più km.
L’anno in cui ho corso con Matteo Marzotto sulle prime dune c’era il finimondo: molti equipaggi procedevano contromano in quanto si erano smarriti con il roadbook e quindi si presentava ovunque del pericolo”.

Sei stato copilota anche nella categoria auto. E’ meglio fare la Dakar sui camion? Sul piano della sollecitazione fisica, certamente no…

“Salvador Servia e Giacomo Vismara sono due piloti simili, divertenti, capaci, non si perdono mai d’animo, oltre che essere molto costanti e veloci. Con loro mi sono divertito molto, ma con il camion ancora di più, forse ci sono maggiori sollecitazioni, ma in cabina puoi scherzare con i compagni e poi sulle dune -che sono la mia passione- sembra di essere in un ballo vorticoso in compagnia di una bellissima donna, accompagnata sulle creste e sui pendii delle dune!”

Non possiamo elidere la domanda di rito, e ci accodiamo alla tradizione. Qual è stata -fra le sedici a cui hai partecipato- la Dakar della vita, quella migliore in assoluto?

“Sai, ognuna ha il suo fascino. Le migliori sono sempre quelle vinte, ma ciascuna ha lasciato il segno, sin dalla prima eseguita come “un barbone”, quando è successo di trovarmi di notte nel mezzo del passo di Nega (in Mauritania, ndr) dopo tre giorni che non dormivo, accorgendomi di essere sdraiato in mezzo alle dune con un giapponese…che era nel team del Camel Trophy in Australia del 1986! (competizione fuoristradistica per team nazionali, Albiero concluse secondo assoluto, ndr). Non si può dire diversamente della Dakar con Servia dove abbiamo vinto l’assoluta nella speciale del Lac Rose (tappa finale del 1999, ndr), così come le vittorie con i Perlini sia nella Dakar sia nella Parigi-Città del Capo che nella Mosca-Pechino. Indimenticabile anche quella con il Macmoter team, con il quale dopo mille problemi siamo riusciti a portare il mezzo all’ arrivo con un pilota settantaduenne (Alois Johann Haring, ndr), oppure con Biasion con il camion e non ultima quella con Matteo Marzotto, personaggio famoso (Expo Ambassador, ndr) ma umilissimo in gara, compagno indiscusso in una bellissima Dakar sudamericana”.

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