#211 Hubert Auriol - Philippe Monnet | Paris - Le Cap 1992

Ripercorriamo insieme le gesta di un personaggio che ha dato anima e corpo alla Dakar. Il deserto faceva da sottofondo alla sua vita, lasciando trasparire dai suoi occhi il fuoco di chi voleva affrontare ardentemente quelle dune. Come sapete cimentarsi nella Dakar, soprattutto in moto, è sempre stata un’esperienza “pazza“. Soprattutto nelle prime edizioni. E’ anche vero che ciò ha generato tantissimi racconti, storie e scritto pagine di storia importantissime per il motorsport.

Oggi le misure di sicurezza sono cambiate drasticamente, oltre al fatto che le moto odierne sono nettamente più performanti e affidabili, vengono studiate appositamente per questa disciplina. Naturalmente non è stato sempre così e ci si ritrovava a percorrere oltre diecimila chilometri con una moto prettamente di serie, con solo l’aggiunta di un serbatoio supplementare e una riserva d’acqua. Ne sa qualcosa Hubert Auriol. Il “ragazzone”, classe 1952, ne ha viste di cotte e di crude nel deserto a bordo di moto che a loro tempo erano al top dell’avanguardia. Come sappiamo ci ha lasciati oltre due anni fa, mentre andava in onda la 43^ edizione della Dakar, ma non siamo qui a piangere la sua scomparsa. Piuttosto vogliamo regalarvi qualche sorriso e anche qualche riflessione, su cosa significava correre al tempo la corsa più dura del mondo.

L’Africano. Così veniva chiamato. Hubert aveva il deserto nel sangue, con una dedizione che pochi possono vantare di avere. Iniziò la sua brillante carriera come pilota di trial e successivamente d’enduro, all’inizio degli anni ’70. Ma sentiva che non era esattamente la sua vocazione. Decise così, nel 1979, di prendere parte a quella nuova e affascinante corsa nel deserto: la Parigi-Dakar. Fu amore. Saltò in sella alla sua Yamaha XT 500 privata e vi prese parte; il suo compagno di squadra era niente poco di meno che Cyril Neveau. Quest’ultimo vinse la corsa, mentre Auriol chiuse 12°. Il 1980 non fu l’annata di Hubert, che infatti dovette ritirarsi mentre il connazionale volava alla vittoria della seconda edizione della Dakar. Passarono dodici mesi e si tornò ai nastri di partenza; ci furono però dei grossi cambiamenti. “l’Africano” entrò nel team BMW, con la nuova e fiammante R80 G/S. Insieme a lui il crossista belga, Gaston Rahier. Non sapeva ancora come nel tempo, la rivalità, si sarebbe trasformata in astio profondo. Quell’edizione però fu decisiva e Hubert Auriol firmò la sua prima vittoria. Nel frattempo la popolarità della Dakar iniziava ad aumentare, così come le case costruttrici interessate ad entrare nell’inferno giallo. L’ex compagno, Cyril Neveu, trovò un posto in Honda e il 1982 si trasformò in battaglia aperta. BMW per la nuova annata, aveva aumentato la cilindrata a 1000 cc della R80 G/S; Honda invece aveva portato in gara le nuove XR550, con uno squadrone che vantava ben cinque moto. Hubert partì bene, ma un guaio al cambio lo portò a perdere molto tempo. Una serie di guasti e forature costrinsero il francese a ritirarsi definitivamente. Le Honda trionfarono a Dakar.

Il fatidico 1983 arrivò. Thierry Sabine annunciò che sarebbe stata la Dakar più dura di sempre. Si scelse di addentrarsi nel deserto del Tenerè, cosa mai provata prima da una competizione. Alle porte dell’infermo Hubert era davanti con la sua nuova BMW 980. Dietro di lui le Honda. Rahier si era ritirato a causa della rottura del carter.

Anche i migliori sbagliano.

Il pilota Suzuki Joineau, guida un piccolo gruppetto di moto per poi perderne le tracce alle sue spalle. Incredulo arrivò per primo ad Agadez. Hubert perse tantissimo tempo, ma riuscì a finire la tappa indenne; il suo vantaggio però si era dimezzato. Distrusse la gomma posteriore e gli venne donata da Loiseaux. La sua BMW iniziò poi a perdere colpi e in una pista, il pilota francese Bacou, lo affiancò e gli suggerì di spegnere i fanali. Riuscì finalmente a giungere al traguardo, ancora una volta sul gradino più alto del podio. Nel 1984 si accese la miccia con Rahier. I due non si sopportavano. Una gara infiammata, che ha visto protagoniste le due BMW, rispettivamente la R80 e la R100. La spuntò la prima, lasciando solo le briciole al due volte vincitore. Hubert nei mesi successivi si mise in silenzio stampa; tutte le squadre avevano già completato le loro line-up.

Cosa avrebbe fatto Hubert Auriol?

Nell’autunno 1984 arrivò una svolta epocale: il campione francese sarebbe salito a gennaio in sella alla prima bicilindrica nata esclusivamente per la Dakar. Hubert Auriol era il pilota di punta della squadra Ligier-Cagiva. Honda e Yamaha erano ancora indietro, mantenendo il super collaudato monocilindrico; gli italiani, audaci come sempre, sfornarono da Varese questa creatura da 750 cc e motore Ducati. Chiaramente i pochi test e la “freschezza” della moto, fecero si che la prestazione non fu brillante, ma comunque un ottimo banco di prova. Hubert riuscì a concludere all’ottavo posto. L’86 sfumò via come ghiaccio al sole con nessuna Cagiva nei primi dieci, tripletta Honda (tra l’altro al terzo posto arrivò il nostro connazionale Andrea Ballestrieri), ancora peggio la tragica scomparsa di Thierry Sabine – insieme all’equipaggio dell’elicottero schiantatosi – e di Giampaolo Marinoni.

Ok. Ci siamo. fate un bel respiro, ed addentriamoci in quel 1987.

E’ probabile che sia la storia più famosa del grande Hubert Auriol. Uno di quei racconti che potresti ascoltare mille volte, senza stancarti ed avere la pelle d’oca ad ogni parola. Puoi sentire ogni sensazione, come i graffi nell’anima che hanno tentato di scalfire l’africano. Ma non ci sono riusciti. Fu curioso come Hubert diede uno scrollone a quella nona edizione della Dakar. Si trovava a Timbuctù. Il pilota Ligier-Cagiva decise di fare una bella mangiata di pomodori, incurante delle acque contaminate da tantissimi batteri. Si dovevano percorrere 590 km, in direzione Nema in Mauritania. Oltre centoquaranta piloti inseguivano il “capitano“, sicuri della sua navigazione. Dopo duecento chilometri Hubert si dovette fermare. Un attacco di dissenteria devastante. Quell’inconveniente però fece in modo che si rese conto di aver sbagliato strada. Neveu e Rahier si persero nel deserto, mentre Hubert tornò indietro, trovando la pista giusta e dando un ora e mezzo a tutti.

Il destino a volte è beffardo.

La tappa facile verso Atar. Ma tutt’altro. Particolare la presenza di una ferrovia, detta anche la “linea del ferro”, su cui passava il treno merci più pesante e lungo al mondo; oltre due chilometri e mezzo di locomotive da oltre 3000 cv, che trainavano vagoni colmi di ferro. Per evitare errori di navigazione, bastava costeggiare la ferrovia ma anche lì l’insidia era dietro l’angolo. Infatti ad ogni passaggio, il treno faceva schizzare pezzi di metallo che si staccavano dai binari. Vatanen forò tantissime volte, che gli costò quasi la corsa. La stessa sorte successe a Hubert. Si caricò in spalla tre camere d’aria, come i ciclisti, addentrandosi nel deserto. Le giapponesi avevano le allora nuovissime mousse; la Cagiva però non poteva montarle, in quanto a causa della tanta potenza scaricata a terra si riducevano in poltiglia. Una, due, tre forature. Giatti, Vassard e Landereu si fermarono ad aiutare il leader della gara. Arrivato ad Atar, Huber aveva perso un ora e venti minuti su Neveu. Si decideva tutto all’ultimo. Chi l’avrebbe detto che quella Dakar si sarebbe decisa per…una pianta? Hubert colpi delle radici. Cadde. Entrambe le caviglie fratturate. Il dolore era alle stelle, ma la testa voleva arrivare a Saint Louis. Arrivò Marc Joineau, a cavallo della sua Suzuki. Trovò Auriol che urlava, ma che tentava ad ogni costo di tornare in sella. Il due volte vincitore della Dakar non ne voleva sapere di dare forfait. Joineau lo aiuto a rimettersi alla guida e gli riavviò il motore. Quella Cagiva avanzava per il bene di dio, senza cambiare marcia con un uomo che si stringeva con tutta la forza d’animo che poteva al manubrio. Neveu aspettava al bivacco e contava ogni minuto. Si sentì in lontananza il rumore inconfondibile del bicilindrico Ducati. Passò sotto l’arco e si accostò. Il viso dilaniato dal dolore. Renè Metge lo aiutò a stendersi e gli sorresse la testa. Gli sfilarono gli stivali.

Il silenzio calò drasticamente.

Le ossa della caviglia sinistra gli uscivano dalla pelle della gamba. Nessuno avrebbe potuto guidare con una frattura scomposta in quel modo. Ma l’ardimento e la forza di volontà andavano ben oltre. Rahier cercò di avvicinarsi, ma Huber non ne volle sapere. Subito gli venne iniettata della morfina per placare il dolore. Neveu portò alla vittoria la sua Honda bicilindrica. Mentre Huber veniva portato via in barella, fece il segno della vittoria con la mano ed esclamò:

“Dite a Castiglioni che abbiamo battuto le Honda.”

Una semplice frase, che fece eco in tutto il mondo e ancora oggi viene ricordata con gli occhi lucidi da Carlo Pernat.

La riabilitazione fu lunga ed estenuante. Chiodi, protesi interne ed una rieducazione di oltre sei mesi in cui fu recluso dal mondo. La moto, ormai, non poteva essere più contemplata.
Il 1988 segnò l’arrivo delle quattro ruote per Hubert Auriol. Dapprima con un buggy Arnoux, mantenendo così l’essenza dell’esperienza in solitaria. Poi arrivò il contratto con Lada nel 1991, a bordo della Samara T3, preparata da Oreca. La fiducia gli valse un ottimo quinto posto, tanto da essere notato da Mitsubishi.
Nel 1992 così Hubert salì a bordo della Mitsubishi Pajero Proto T3. Quell’anno la Dakar si concluse a Città del Capo, con una delle edizioni più lunghe di sempre. Le Citroen non-pervenute, faticavano ad intrufolarsi nella classifica mentre le Mitsubishi cercavano di prendere il largo. Lo squadrone giapponese perse Bruno Saby, nelle prime battute di gara con una spettacolare carambola. Dieci forature per le ZX, lasciando così spazio per una top-5 tutta Mitsubishi già alla settima speciale. Hubert riuscì a vincere le due tappe successive, portandosi in testa ma Weber e Shinozuka erano vicinissimi. La Pajero T3 di Auriol si piegò su un fianco nell’undicesima speciale perdendo oltre sedici minuti. Nel frattempo le Citroen avevano ritrovato vigore, con Vatanen-Waldegard-Lartigue che avanzavano in blocco. Il Pajero però del francese però sembrava non volerne sapere; iniziavano i problemi di surriscaldamento. Hubert Auriol, però, in quel 1992 riuscì ad entrare nella storia insieme a Philippe Monnet. Fu il primo pilota a vincere la corsa sia in moto che in auto. Fu incredibile gioia anche per Mitsubishi, con una tripletta d’altri tempi: Auriol – Weber – Shinozuka. Dietro di loro tutte le Citroen.

Il periodo giapponese durò soltanto un anno. Hubert approdò in Citroen, dove nel 1993 fece un ottimo terzo posto con due vittorie di tappa. Nel 1994 erano solo in due: Auriol e Lartigue contro tutte le Mitsubishi. Sei vittorie di tappa per il tre volte vincitore della Dakar, che lo portarono al secondo gradino del podio preceduto da Pierre Lartigue in un binomio Citroen.

Nel 1995 Hubert Auriol lasciò il volante, iniziando ad organizzare la gara più dura del mondo fino al 2004. Nel 2006 fece una comparsa a bordo di Isuzu, ma senza riuscire a concludere la corsa. Nel 2008 come sapete la Dakar non si è disputata e insieme a Jean Louis Schlesser, Huber Auriol iniziò ad organizzare l’Africa Eco Race.

Cosa possiamo dire. Una carriera piena di emozioni, che ci lascia brividi sulla pelle ad ogni pensiero. Un uomo, che ha dato tutto per il deserto. Fino ad ogni granello di dedizione.

Ovunque tu sia Hubert, grazie per ogni pagina intramontabile di questa meravigliosa gara.

 

 

 

 

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